Lo schermo che si divide in due, i personaggi che si
raddoppiano, le storie che si avvolgono e accartocciano
l'una nell'altra: Brian De Palma non è mica la prima volta
che usa il cinema come uno specchio deformante o un potente
allucinogeno, da Le due sorelle fino a Omicidio a luci
rosse, abbandonando progressivamente la copia dei film di
Hitchcock e portando il thriller verso un design sempre più
radicale, tecnocratico e rutilante, ha continuato a
raccontarci qualcosa mirando sempre allo stesso obiettivo.
Tutto, pur di non metterci in grado di sospettare la verità
prima che lui decida di farlo. Chiunque ami il giallo e il
poliziesco sa che proprio questo è il piacere di chi ne è
appassionato
Femme fatale, la sua ultima fatica, presentato a Cannes
fuori competizione, tradisce, sin dalle prime inquadrature,
questa missione. Proprio durante una delle anteprime del
Festival (compare anche Gilles Jacob, il presidente, nella
parte di se stesso) un quartetto efferato, seguendo un piano
impossibile, libera una modella, prima che si sieda in sala,
tra i vip, di un costume farcito di diamanti miliardari. Il
colpo riesce ma solo la sua principale esecutrice, Rebecca
Romijn-Stamos riesce a farla franca, fregando il suo
principale complice e lasciando gli altri nei pasticci. A
questo punto il film si avvita, in caduta libera, in una
spirale in cui il problema della plausibilità non sembra
proprio essere stato lo stress principale del regista che è
anche lo sceneggiatore. In fuga dalla vendetta dei complici,
la protagonista si imbatte in una sua sosia che è una
normalissima borghese tormentata dal lutto recente della
morte di una bambina. Il colpo di scena, un po' vistoso e
non irresistibile, pone lo spettatore di fronte ad una
opzione: in un caso, la diabolica ladra, femme fatale,
assiste al suicidio della sua copia, ne prende l'identità e
sette anni dopo si ritrova di nuovo a fronteggiare gli
antichi sodali, sempre più incavolati, incastrando nella
avventura Banderas, un paparazzo andato a male; nell'altro,
impedisce alla donna di togliersi la vita - e forse proprio
in virtù di questo fioretto, il destino provvede a toglierle
dalla scatole per sempre gli antagonisti e a incontare
Banderas non come persecutrice ma come conquista.
E' evidente che il film non può essere iscritto nella
collezione dei film di De palma più solidi, convincenti e
robusti, semmai sembra appartenere a quelli più estremi,
stilizzati, malevoli, voraci e basculanti (come ad esempio
Blow out e Raising Cain). Poco male, non è affatto
sgradevole precipitare in caduta libera con De palma, le cui
ossessioni sono tenere tutto a fuoco nell'immagine (da ciò
che è ad un millimetro dall'inquadratura a ciò che dista
centinaia di metri), segmentare e suddividere all'infinto
con le inquadrature il luogo il tempo di una sequenza
d'azione, e scoprire per il corpo delle donne sempre nuove
immagini di seduzione. Ma, fatta eccezione per l'ultima che
abbiamo scritto - l'attrice, e il suo corpo, sono assai più
in forma del film - e di alcune sequenze di striptease, eros
e una splendente fluttuazione acquatica, il resto, non
sembra più l'effetto dell'esibizionismo di un grande tecnico
ansioso di provare sempre qualcosa di nuovo, somiglia più
alla distratta e nervosa frenesia di chi prova stratagemmi
sempre più complicati con un vecchio giocattolo che non è
più in grado di eccitarlo.
di Mario Sesti - Kwcinema