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Lorna è una giovane albanese che, per ottenere la cittadinanza belga, accetta il piano di Fabio, un malavitoso, che la fa sposare ad un tossico, Claudy. Lo scopo dell’uomo è quello di far ottenere in fretta il divorzio alla donna e di farla sposare ad un mafioso russo, che pagherebbe moltissimo pur di ottenere a sua volta la cittadinanza. Il sogno della ragazza pare essere quello di aprire uno snack bar con il fidanzato, Sokol, e il miraggio dei soldi che Fabio le ha promesso è irresistibile. Solo che le cose non vanno proprio per il verso prestabilito e tutto si rallenta. Fabio decide allora di accelerare i tempi, uccidendo Claudy con un’overdose. Lorna tace, ma qualcosa in lei è differente da prima...
Jean-Pierre e Luc Dardenne, i fratelli belgi vincitori di due Palme d’Oro per Rosetta (1999) e L’Enfant (2005), si presentano da habitué a Cannes, sorprendendo tutti e facendo storcere il naso a molti, con la cifra stilistica differente e la svolta rappresentata da Le Silence de Lorna.
I Dardenne, noti per l’asciuttezza e il rigore delle scene, per le inquadrature essenziali, fedeli al motto "non una di troppo", si concedono stavolta un viaggio più sentimentale, fino al limite del pietismo, e quindi meno oggettivato, più "paesaggistico", che non pare appartenere alle loro corde, nei dubbi e nei cambiamenti coscienziali della loro protagonista (la bravissima kosovara Arta Dobroshi, scelta tra centinaia di aspiranti al ruolo). Cambia anche il modo di filmare, non più in super 16 mm ma in 35 mm, con un uso decisamente minore della camera a mano e con inquadrature più larghe che, oltre ai protagonisti, inquadrano il paesaggio circostante. E, se prima era la cittadina industriale di Seraing, ora è Liegi: a voler significare le speranze di Lorna, riposte, da immigrata, in una grande città e anche, secondo le parole dei Dardenne, perché "volevamo vedere Lorna in mezzo alla folla, con la gente fisicamente vicina, che è ignara dei suoi segreti".
Una svolta quindi che, al di là dall’essere solo esteriore, è simbolica. Le tematiche sono le stesse di sempre: le scelte obbligate dei diseredati, in questo caso dei "sans papier", già trattati in "La promesse" (1997), l’analisi dolorosa di esistenze disperate, che paiono non avere scelta, lo spiraglio di speranza finale, che squarcia forse il pessimismo cupo dei Dardenne, con una scivolata nel sentimentale che sorprende chi conosce i due registi sceneggiatori, che ci tengono a precisare che questa è, in fin dei conti, una storia d’amore.
Un film non del tutto equilibrato, come se i due registi dovessero ancora rodare la loro nuova strada.

Giulia Baldacci

 


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