Un ex sceneggiatore debuttante
nella regìa, Tony Gilroy; tre registi (Sidney Pollack,
Steven Soderberg, Anthony Minghella) come produttori
esecutivi; un protagonista affascinante, caldo e bravo,
George Clooney; un titolo che è il nome del personaggio
principale; un luogo prediletto dai media, il grande studio
legale di New York con molti avvocati e molti soldi. Michael
Clayton è appassionato ma non appassionante, un buon film
americano progressista e medio, ben recitato, morale e a
tratti un po’ noioso.
Clooney, che appartiene allo studio, non fa l’avvocato. Fa
lo spicciafaccende, salva i clienti nei guai, si occupa dei
lavori sporchi. Non ha famiglia (è divorziato), è carico di
debiti pericolosi, ha il vizio del gioco, allo studio non lo
vogliono come socio benché sia indispensabile e lavori lì da
anni. E’ infelice e stanco morto quando gli arriva un
incarico peggiore del solito: aiutare una grande azienda
chimica che, per salvarsi in un processo intentatole dalle
famiglie dei morti e dei malati provocati dai suoi prodotti,
arriva a far uccidere avversari e testimoni.
Pure un avvocato dello studio difensore dell’azienda,
passato con sdegno dall’altra parte, muore. George Cloonbey
cambia: fa arrestare tutti e sceglie un’altra vita. Lieto
fine etico, dunque: ma non basta al film che, insieme con
alcune cose belle, ha un paesaggio sociale e urbano di
meschinità, crudeltà, malvagità.
Lietta
Tornabuoni