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Arriva il terzo episodio, o la seconda parte del secondo, fate voi, della saga dei Pirati dei Caraibi. "Ai confini del mondo" rispetta i canoni dei due precedenti film: opera corale con una molteplicità di personaggi ai quali il regista dedica equilibrate porzioni di attenzione, lunghe scene d'azione, effetti speciali a iosa, cura per un colpo d'occhio soprattutto delle scene in notturna che conquisti i palati dei più esteti ed un divertito gusto per il macabro e il raccapricciante così come ci si aspetterebbe da un bimbo che ama tagliare le code alle lucertole o far morire d'asfissia una mosca dentro ad un bicchiere. Ecco, probabilmente, è questo quello che caratterizza , e conquista, dei tre film di Verbinski: l'occhio infantile con il quale guarda, e racconta, le vicende di Jack Sparrows e dei suoi accoliti. Quello sguardo da bambino che fa accettare con leggerezza anche i tradimenti più vili - tutti tradiscono tutti per i fini più nobili e più infimi, nessuno si fida di nessuno ed il doppio gioco diventa triplo e quadruplo tant'è che alla fine ci si raccapezza con difficoltà tra l'intricata tela delle alleanze e dei patti segreti - o le situazioni più drammatiche e penose: l'amore, la guerra, la morte, l'abbandono assumono i contorni di un leggiadro gioco di bimbi…
Ma c'è qualcosa in più in "Ai confini del mondo". Verbinski, ormai conscio delle proprie possibilità e forte dell'evidente libertà produttiva concessagli, si permette quasi dieci minuti di calma piatta - estraniandosi dal concitato turbinio degli eventi - raccontandoci della follia mentale del pirata Sparrows confinato in una sorta di limbo per pirati dove domina la totale assenza di mare e di vento. Dieci minuti per mostrarci i demoni di un pirata buffone ed istrionesco, pieno di sé, romantico senza essere sdolcinato, crudele senza risultare odioso, scaltro ma non abbastanza per non farsi infinocchiare dalla bella - e la Knightley lo è davvero - di turno. Ma il regista di New York non si ferma qui e si permette di citare esplicitamente Sergio Leone in una scena anche questa al di fuori dei canoni stilistici predominanti e si toglie il gusto di dirigere un mito del Rock come il Keith Richards dei Rolling Stones. Che volere di più da un regista di appena quarant'anni?
Forse, un minor uso di effetti speciali (suggestiva la scena dei frammenti di legno della nave esplosa anche se grondante autocompiacimento) ed una maggior attenzione alla trama troppo al servizio dell' effetto a scapito della coerenza narrativa, non è chiedere troppo. Comunque il film, pur se lungo, ci conduce avvincendoci al porto di un finale che lascia qualche dubbio su un possibile quarto capitolo.
Un consiglio: attendete la fine dei - lunghi - titoli di coda. Avrete una sorpresa…

Daniele Sesti

 


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